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Il futuro di un combattente 

a cura di Anna Deidda

Non posso dire cosa fare del suo passato, ma so che alcuni di noi hanno a cuore cosa sarà del suo futuro”.

Uno dei più importanti dogmi della genetica ci insegna che tutte le principali informazioni genetiche che possediamo risiedono nei nostri geni, sottoforma di DNA, il quale viene tramandato di generazione in generazione.

Così per il cane, la memoria di razza è l’insieme delle doti caratteriali, degli istinti e delle attitudini che caratterizzano i soggetti di una razza. E’ l’espressione della selezione dell’uomo, della ricerca di una combinazione eccellente che rende il cane adatto allo svolgimento di un particolare lavoro.

Costituisce circostanza obiettiva ed assodata che la memoria di razza del Pitbull è da ricondurre alla sua storia, alla ragione per cui questi cani sono stati selezionati, cioè per i combattimenti tra simili.

Costituisce, tuttavia, fatto inopinabile ed incontestabile che le lotte tra cani sono illegali, per cui il Pitbull non potrà svolgere - se non in maniera clandestina e, dunque, sempre più raramente e da emarginato - il “lavoro” o lo “sport” per cui è stato creato.

E’ doveroso, dunque, se davvero, si ama il Pitbull - e non solo il fight che non è attitudine di razza, ma mero impiego della razza - a prescindere da una valutazione morale e/o etica sulla bontà dei combattimenti tra animali, porsi il problema di quale futuro vogliamo riservare a questa razza.

Si! Perché, piaccia o meno, dobbiamo prendere atto che ciò che sarà del Pitbull è nelle nostre mani e che ciascuno di noi ha una responsabilità precisa al riguardo.

Sul punto, troviamo diversi approcci che si possono riassumere in due posizioni: c’è chi ritiene che la memoria di razza vada comunque preservata, ravvisando nel mancato mantenimento di questa attitudine uno snaturamento del cane se non, addirittura, un maltrattamento genetico; c’è chi, invece, sostiene che la sua memoria di razza andrebbe smorzata al fine di consentire l’utilizzo più agevole del cane in altre attività.

Ebbene, la soluzione sembra impossibile, ma, a bene vedere, tale impossibilità non risiede nella soluzione ma nella premessa, erronea in quanto viziata dalla confusione tra la combattività del Pitbull quale caratteristica innata ed il combattimento che è l’attività prettamente umana tendente a sfruttare la combattività del Pitbull.

Il Pitbull è necessariamente un combattente, nella definizione corretta che comprende le caratteristiche della tempra alta, della competitività, della grinta, del coraggio, dell’impetuosità, dell’irruenza, posta in contrapposizione alla arrendevolezza e remissività.

Il Pitbull non smetterà mai di essere un fighter perché distante dal ring o al di fuori di un match.

Perché se è vero che la dote, l’attitudine e la massima espressione della razza è la GAMENESS, intesa come dimostrazione di coraggio, tenacia, resistenza e determinazione sino alla morte nel raggiungere un obiettivo, il Pitbull la manterrà e la eserciterà per raggiungere un qualunque obiettivo anche al di fuori del quadro, in una qualunque attività ed in qualunque impiego.

Da un punto di vista attitudinale, dunque, si può affermare senza timore di smentita che “riconoscerai” il vero Pitbull anche se non lo occupi nel combattimento e, persino, se non sbraita alla vista di altri cani. Perché il vero Pitbull esprimerà la sua gameness anche inseguendo una pallina.

Alla fine dei conti, dunque, forse la questione se eliminare o meno dal patrimonio genetico del Pitbull l’aggressività verso i conspecifici non assume primaria rilevanza in quanto tale caratteristica non è – contrariamente al dogma indiscutibile più o meno diffuso – ciò che identifica la razza.

Tale attitudine, pur essendo presente ed assai spiccata non è né la predominante, né la necessaria, a meno che non si utilizzi il Pitbull solo ed esclusivamente per la lotta.

Premesso questo, nel rispetto della razza, non è da condividere nemmeno l’estremo opposto (sbagliato quanto quello di chi vede il Pitbull solo quale cane da fight), ossia la posizione di coloro che hanno la pretesa di “socializzare” il Pitbull tanto e sino al punto da esigere che diventi un animale da area cani.

E ciò magari, solo per comodità (il cane “gioca”, si scarica, così non rompe a casa mentre io mi siedo nella panchina a chiacchierare) o per ignoranza (dogma della socializzazione: “devi far incontrare al tuo cane più cani possibili in modo che diventi più sociale”.

No! Chi trova inopportuno che il suo Pitbull non gradisca la presenza e/o la convivenza con atri cani e/o altri animali, deve cambiare razza.

Ciò non significa che il cane debba restare allo stato brado: con l’addestramento, anche un cane che per natura non va d’accordo con i suoi simili, può essere portato in giro in tranquillità e può fare attività stimolanti, sportive e di utilità, proprio come gli altri.

Concludendo, come in ogni ambito della vita, la soluzione mediana è sempre quella preferibile, quella più responsabile, realista ed equilibrata.